Collingwood, Geertz e il valore cognitivo delle Scienze Umane.

da | Giu 21, 2019 | Senza categoria | 1 commento

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Nella prima metà del secolo scorso i filosofi neopositivisti introdussero stabilmente nella cultura occidentale l’idea che l’unica dottrina dotata di valore universale, cioè la Scienza, fosse fondata sull’esperienza empirica e che tutto ciò che stava al di fuori di essa era un’impressione, un dato non verificabile, non conoscibile, metafisico. Secondo questa prospettiva neopositivista ed empirista, cioè scientifica, un enunciato è verificabile solo quando è disponibile un certo numero di osservazioni ricavate dall’esperienza che attestano alcune condizioni di verità (induzione). Con l’applicazione dei criteri delle Scienze empiriche all’archeologia, per alcuni decenni si è assistito al tentativo di estendere il metodo di indagine quantitativa e statistica anche allo studio delle immagini preistoriche che sempre in maggior numero venivano scoperte in ogni parte del mondo. Il tentativo era in parte giustificato dall’impressione, al tempo molto sentita e in alcuni casi veritiera, che una parte delle argomentazioni prodotte per dimostrare il significato delle incisioni o pitture preistoriche appoggiasse su dati soggettivi o su ricostruzioni teoriche la cui debolezza era spesso da attribuire al non sempre corretto impiego del metodo comparativo. Con il passare del tempo gli studiosi di Iconografia Preistorica sono diventati sempre più consapevoli del fatto che ogni interpretazione necessita di una accurata documentazione in grado di giustificarla, in mancanza della quale l’unica scelta possibile è quella di limitarsi a fornire un corpus di dati più completo possibile, rinviando l’attribuzione di un significato a tempi migliori.

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Il mio riavvicinamento alla filosofia è avvenuto alcuni anni fa, mentre ero coinvolto in una incredibile ricerca iconografica che si proponeva di scoprire il significato di un antico gioco per bambini, il “Gioco del Mondo” (inglese: Hopscotch game; francese: Marelle; spagnolo: Rayuela). Le regole del gioco, ma ancor di più la geometria del tracciato sul quale ancora oggi si gioca, a mio modo di vedere costituivano (e costituiscono ancora oggi) un formidabile punto di accesso alla comprensione della Cosmologia preistorica, ineliminabile premessa allo studio delle origini della danza. Ho presentato la relazione sulla struttura cosmologica del Gioco del Mondo al XII° Seminario di Archeoastronomia (Genova, aprile 2010) riscuotendo grande interesse e un ampio accordo intersoggettivo. Quando poi, alcuni mesi più tardi, ho inviato il testo della mia conferenza (G. Ragazzi, “Il Gioco del mondo e il Cosmo degli antichi”, 2010) ad alcuni studiosi di Arte Preistorica, il cammino della mia ricerca si è subito rivelato molto più difficile, al punto da indurmi a riprendere in mano i libri di filosofia al fine di scoprire quale tipo di conformità esisteva tra la mia ipotesi interpretativa ed i criteri logici dell’Epistemologia e dell’Ermeneutica.

Nel corso dei due successivi anni di studio ho avuto modo di cambiare radicalmente la mia prospettiva teorica. Se prima ero convinto che le ipotesi formulate dagli studiosi di Iconografia Preistorica erano soltanto un “gioco nell’ambito del non verificabile”, come sosteneva W. Burkert (Homo necans, 1981,36), il recupero di una competenza “logica” aveva introdotto nel mio modello di ricerca importanti novità; mi metteva a disposizione alcuni strumenti logici con i quali era concretamente possibile pervenire alle certezze lungamente inseguite, mettendomi in condizione di formulare le mie ipotesi con un linguaggio appropriato (G. Ragazzi, Epistemologia e Iconografia Preistorica, 2014).

Nel corso di questa “seconda navigazione” è parso evidente che, in netta opposizione alla severa critica ricevuta, discipline come l’Iconografia Preistorica e l’Archeologia non possono sottostare ai criteri quantitativi delle scienze naturali, esattamente come le leggi della natura non sono in grado di spiegare la complessità dei fatti umani, soprattutto quelli simbolici. Su questo tema un determinante contributo di conoscenza mi è giunto dalla lettura di Il concetto della storia, di R.G. Collingwood (1966), che ha illuminato potentemente il mio percorso cognitivo.

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1 commento

  1. Vittorio Volpi

    Difficile commentare e difficile darti torto. Eppure siamo molto lontani dalle affermazioni apodittiche. Questa ricerca del metodo è in se stessa la garanzia della veridicità dei risultati (effimeri e provvisori quanto pur siano): la sistematizzazione arriverà a posteriori; la formula elegante e predittiva, scolpita nella roccia, si scolpirà da sè. Sono lastre di un ponte che si materializzano via via che si osa il passo sopra l’abisso. È da vertigine questo passaggio, ma osarlo è (fideisticamente) già averlo compiuto ed essere arrivati al punto di approdo. Lo sventolar delle bandiere è pur sempre segno della propria presenza; del dare a chiunque la possibilità di vedere i cerchi allargarsi, dopo aver gettato il sasso nello stagno. I sistemi troppo rigidi (come quelli sicentisti) smascherano l’intimo sospetto di inadeguatezza e il seguirli pedissequamente è indice di speculare insicurezza. Fai bene a lanciarti nel vuoto, le tue intuizioni emotive (!) ti sorreggono, ti guidano: una volta al di là, volgendoti indietro, tutto sarà evidente e lampante (non solo a te), ovvio quanto qualcosa che non ha più bisogno di alcuna dimostrazione, nè di un “consensum omnium”.

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