Agli studiosi di Iconografia Preistorica non può sfuggire il fatto che, nonostante le innumerevoli classificazioni a cui è stata sottoposta, la figura antropomorfa continui a sottrarsi ad un valido inquadramento interpretativo. La presenza dell’antropomorfo nel repertorio dell’Iconografia Preistorica non può essere analizzata solo sulla base della logica stando alla quale l’immagine è ridotta a semplice duplicato della realtà, riproduzione eseguita con tecniche particolari su svariati tipi di supporto. Dato il non facile compito di attribuire un valore alle immagini prodotte dalle società preletterarie, proprio lo studio della figura antropomorfa può condurre al superamento dell’ormai sistematica vaghezza nell’interpretazione dei documenti figurativi. Infatti, a prescindere dall’inquadramento nel suo orizzonte culturale e dal suo inserimento all’interno di una tipologia, l’antropomorfo sfugge ad una lettura prettamente funzionalistica, suggerendo al ricercatore un significato ulteriore, senza che al momento si possa intravvedere una valida possibilità di verifica. La civiltà occidentale attribuisce alla corporeità un valore negativo, agli antipodi rispetto alla concezione del corpo documentata presso le civiltà arcaiche. Infatti, se nella tradizione occidentale la comunicazione avviene in prevalenza mediante atti di parola, in quella arcaica il corpo è il centro di irradiazione simbolica, al punto che in alcuni casi lo stesso elemento spirituale può agire solo nella misura in cui dispone di uno strumento gestuale (Fano 73). E’ stato Marcel Mauss a sottolineare come in un contesto culturale arcaico “atto tecnico, atto fisico, atto magico religioso sono confusi per l’agente“, asserendo che ogni gesto, ogni comportamento umano innesca un processo di interazione sacrale con l’intero Universo.
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